Questo spazio è pensato per riflettere insieme intorno a tematiche di natura psicologica e finalizzato alla diffusione e promozione del benessere psicofisico. I temi e le iniziative di volta in volta proposti sono ispirati alle mie esperienze professionali e formative.
sabato 15 dicembre 2012
Il colloquio clinico con la coppia
Over the town (Chagall 1918) |
Il colloquio clinico è una tecnica di osservazione
e di studio del comportamento umano utile per raccogliere informazioni (fine
diagnostico), motivare (fine terapeutico) ed informare (orientamento)
(Canestrari R., Godino A. Trattato di Psicologia, Clueb, Bologna, 2002).
Esso prevede un’ interazione tra almeno due persone di cui una portatrice di
sofferenza e bisognosa di aiuto e l’altra un professionista
competente che grazie ad una teoria della tecnica sia in grado di aiutarla.
Con il passaggio dalla cibernetica di primo ordine
alla cibernetica di secondo ordine e l’adozione di un approccio scientifico
ispirato alla complessità, la posizione dello psicologo all’interno di tale processo
è mutato significativamente nel corso del tempo. Grazie alla diffusione
dell’epistemologia costruttivista (dagli anni ’50 in poi), infatti, il clinico
non resta più fuori dal campo di osservazione, assumendo una posizione
“esterna” e neutrale rispetto ad una realtà vista come “oggettiva”, ma
partecipa attivamente nella costruzione e descrizione della situazione di cui
fa parte, osservando il sistema ed auto-osservandosi (Madonna G. La
psicoterapia attraverso Bateson. Bollati Borringhieri, Torino, 2003).
Diventa così fondamentale nella pratica clinica l’attenzione che lo psicologo
deve prestare al proprio modo di costruire la realtà, riconoscendo sempre
l’esistenza di una molteplicità di punti di vista e valutando gli effetti che i
propri interventi hanno sul sistema con cui interagisce.
IL COLLOQUIO CLINICO CON LA COPPIA
L’inevitabile partecipazione del clinico, con le
sue premesse epistemologiche e le sue emozioni, nella co-costruzione del
colloquio clinico e, più in generale, del processo terapeutico appare di
un’evidenza lampante nell’incontro con le coppie. Quest’ultime, infatti,
tendono a definirsi al loro interno e con il mondo esterno in relazione ad un terzo, incluso o escluso
(famiglia d’origine, figli, amici, terapeuta, ecc.) che, in caso di conflitto
tra i due, si trova ad essere triangolato.
Lo studio dei sistemi familiari nel tempo ha,
infatti, evidenziato che l’unità minima interattiva della famiglia non è la
diade ma la triade; anche quando una coppia è senza figli, ad esempio, nella
loro relazione sono in qualche modo presenti i genitori di almeno uno dei due
partner, se non fisicamente almeno nel ricordo e nel mito; oppure, in forma
fantasmatica, i figli mai avuti (desiderati o meno) che finiscono anche per
condizionare il comportamento sessuale ed affettivo della coppia (Loriedo C.,
Picardi A. Dalla teoria generale dei sistemi alla teoria dell’attaccamento.
Franco Angeli, Milano, 2000).
Quando LA coppia si rivolge ad uno psicologo
Cio’ che conduce una coppia a richiedere un
intervento psicologico, sia per una breve consulenza che per un lungo percorso
terapeutico, è solitamente una crisi che la sta attraversando. I motivi
espliciti possono essere molteplici (sintomi di uno dei due, tradimenti,
problemi con le famiglie d’origine, ecc), tuttavia, ciò che mi è apparso
evidente dalla mia pratica clinica e che mi sembra accomuni la maggior parte
dei casi incontrati è che spesso, in questi momenti critici, i membri della
coppia si stiano confrontando con possibili cambiamenti del patto
coniugale che li ha tenuti insieme sino a quel momento. Ciò che inizialmente,
infatti, aveva portato i due ad incontrarsi, ad innamorarsi e legarsi
(desideri, aspettative, bisogni, ecc..) può non essere più valido in altre fasi
del ciclo di vita e richiedere dei cambiamenti per adattarsi a nuove situazioni
e condizioni non presenti prima (ad es. nascita dei figli, morte di un
genitore, ecc). Se una coppia non è in grado di fronteggiare questi e gli altri
inevitabili cambiamenti che le varie fasi del ciclo di vita impongono e
si dimostra incapace di modificare il patto sottostante che li lega è facile
che si arrivi alla rottura. La flessibilità e la capacità di adattamento di
ciascun partner risultano pertanto fattori predittivi per la durata del legame
(F. Walsh, Coppie sane e coppie disfunzionali: quale differenza. Trad.
it. Andolfi M., La crisi della coppia, Cortina Editore, Milano, 1999)
venerdì 2 novembre 2012
Gli effetti psicologici del precariato … è possibile andare oltre?
Pranzo su grattacielo (New York Herald Tribune 1932) |
Il primo post che voglio proporre in questo
spazio riguarda un tema che sento sempre più presente nella mia attività
clinica, incontrando, ormai costantemente, storie di precariato e
confrontandomi sempre più con le emozioni di rabbia, impotenza e angoscia
derivanti da tale condizione.
Le problematiche lavorative (come quelle
familiari, personali, ecc.) penso siano un tema da sempre presente nelle nostre
stanze, ma da un po’ di tempo a questa parte sento che le difficoltà con cui mi
confronto non riguardino solo situazioni specifiche, critiche, acute e
transitorie. Le associo piuttosto a una condizione cronica diffusa, che non
guarisce, con sintomi costanti nel tempo e con effetti che ormai si stanno
stabilizzando. Ma se questa condizione di precarietà lavorativa è entrata
stabilmente nelle nostre case, nelle nostre vite e menti, è opportuno pensare e
riflettere in modo serio e competente su questo. Ad esempio, come imparare a
convivere oggi in tale condizione? Quali sono i suoi effetti negli altri ambiti
di vita? Come tollerare i sintomi che essa procura?
Il precariato, infatti, pur prendendo origine dall’ ambito lavorativo, come una macchia d’olio, sembra espandersi in tutti gli altri campi della propria esistenza, arrivando ad intaccare anche la sfera affettiva e relazionale di un individuo e minando profondamente il suo benessere.
Quando parlo di questo penso, ad esempio, a chi
pur avendo superato i trent'anni non riesce per difficoltà economiche a
svincolarsi dalla propria famiglia d’origine.
Penso all’ansia e all’angoscia che assalgono chi,
ogni fine mese, non sa se il proprio contratto di lavoro verrà rinnovato.
Penso a chi vorrebbe lasciare l’Italia perché
ormai ha perso ogni speranza ed è costretto ad abbandonare la propria terra e
gli affetti più cari.
Penso a quelle famiglie che faticano ad arrivare
alla fine del mese ed alla sofferenza dei genitori che non riescono a
rispondere alle aspettative e bisogni dei propri figli.
Credo che un lavoro stabile e sicuro permetta ad un individuo una molteplicità di cose, tante di queste necessarie e fondamentali per il proprio benessere psicologico. Da sempre, infatti, considero il lavoro una grande risorsa per l’essere umano, cui aggrapparsi in momenti bui o di sconforto e questa mia premessa penso che in qualche modo condizioni anche la mia attività clinica e il modo in cui costruisco la realtà insieme ai miei utenti. Da un po’ di tempo però sento che si guarda con più fatica al lavoro come risorsa e piuttosto la si consideri come uno dei tanti nodi problematici della propria esistenza.
Lavorare, infatti, permette a ciascuno di noi di sentirsi “soggetto”, riconosciuto nella propria unicità, capacità e utilità; permette, di entrare in relazione con gli altri, arricchendo la propria vita sociale e affettiva; consente, inoltre, l’indipendenza economica e di avere una progettualità sostanziata e radicata. In molte delle storie che ho incontrato
nella mia professione il lavoro ha aiutato le persone a rialzarsi, a
riprendersi da periodi di malessere o da problematiche relazionali
importanti. Purtroppo però tutte queste potenzialità racchiuse nel lavoro,
con la condizione del precariato vengono oggi negate, dimenticate e diventa
sempre più difficile considerarlo uno spazio cui attingere energie e risorse;
piuttosto rappresenta un luogo angusto che bisogna imparare a conoscere bene,
anche nel buio, per non rischiare di rimanervi intrappolati.
Sento quindi di dover dare voce a queste storie, testimoniando gli effetti negativi che la condizione di precariato ha sulla vita psicologica degli individui; tuttavia, penso anche che sia molto importante cercare di “guardare oltre”, allargando il campo di osservazione e tentando di far emergere le possibilità di crescita e sviluppo insiste in tale nuova condizione sociale.
Questa ricerca di possibilità è stato un preciso
lavoro che abbiamo concretamente strutturato in equipe con i didatti e colleghi
dell'IIPR (Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale) in occasione di un
convegno a Paestum e successivi incontri organizzati proprio per riflettere
insieme sul tema del precariato. Onestamente riconosco che è stato arduo e
difficoltoso per molti di noi compiere questo tipo di ricerca, alla scoperta di
fonti luminose in uno spazio così buio, angusto e ristretto. E’ complicato,
infatti, continuare a pensare con competenza quando la rabbia e il senso di
impotenza prendono il sopravvento e queste emozioni in qualche modo stanno
attraversando anche noi psicologi, in particolare, i giovani professionisti.
Tuttavia, è fondamentale continuare a vedere e cercare, evitando di appiattirci
su luoghi comuni e infruttuosi lamenti.
Ad esempio, parole chiave su cui iniziare a riflettere insieme, anche in questo spazio, potrebbero essere: tempismo, flessibilità, dinamismo, progetti … Penso, infatti, che questi siano dei termini a cui dovremmo smettere di guardare con diffidenza e paura ma piuttosto con curiosità, spirito di iniziativa, speranza e voglia di cambiamento. L’epoca del posto fisso e del contratto a tempo indeterminato sembra ormai tramontata e a questo forse dobbiamo iniziare ad abituarci, smettendo di sperare in qualcosa che sembra adesso impossibile e trascurando invece le uniche vie possibili da percorrere.
Potremmo cominciare a immaginare il signor
Precario al nostro fianco, come un personaggio senza dubbi controverso, con cui
è però necessario allearsi per recuperare un po’ di senso di efficacia e controllo
nella propria sfera lavorativa (ma anche relazionale, affettiva, ecc.).
Continuando a considerarlo solo come un nemico da abbattere forse i risultati
saranno sempre i medesimi: impotenza, rabbia, frustrazione e soprattutto
incremento della disoccupazione.
Dott.ssa Stefania Attanasi
Dott.ssa Stefania Attanasi
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