Pranzo su grattacielo (New York Herald Tribune 1932) |
Il primo post che voglio proporre in questo
spazio riguarda un tema che sento sempre più presente nella mia attività
clinica, incontrando, ormai costantemente, storie di precariato e
confrontandomi sempre più con le emozioni di rabbia, impotenza e angoscia
derivanti da tale condizione.
Le problematiche lavorative (come quelle
familiari, personali, ecc.) penso siano un tema da sempre presente nelle nostre
stanze, ma da un po’ di tempo a questa parte sento che le difficoltà con cui mi
confronto non riguardino solo situazioni specifiche, critiche, acute e
transitorie. Le associo piuttosto a una condizione cronica diffusa, che non
guarisce, con sintomi costanti nel tempo e con effetti che ormai si stanno
stabilizzando. Ma se questa condizione di precarietà lavorativa è entrata
stabilmente nelle nostre case, nelle nostre vite e menti, è opportuno pensare e
riflettere in modo serio e competente su questo. Ad esempio, come imparare a
convivere oggi in tale condizione? Quali sono i suoi effetti negli altri ambiti
di vita? Come tollerare i sintomi che essa procura?
Il precariato, infatti, pur prendendo origine dall’ ambito lavorativo, come una macchia d’olio, sembra espandersi in tutti gli altri campi della propria esistenza, arrivando ad intaccare anche la sfera affettiva e relazionale di un individuo e minando profondamente il suo benessere.
Quando parlo di questo penso, ad esempio, a chi
pur avendo superato i trent'anni non riesce per difficoltà economiche a
svincolarsi dalla propria famiglia d’origine.
Penso all’ansia e all’angoscia che assalgono chi,
ogni fine mese, non sa se il proprio contratto di lavoro verrà rinnovato.
Penso a chi vorrebbe lasciare l’Italia perché
ormai ha perso ogni speranza ed è costretto ad abbandonare la propria terra e
gli affetti più cari.
Penso a quelle famiglie che faticano ad arrivare
alla fine del mese ed alla sofferenza dei genitori che non riescono a
rispondere alle aspettative e bisogni dei propri figli.
Credo che un lavoro stabile e sicuro permetta ad un individuo una molteplicità di cose, tante di queste necessarie e fondamentali per il proprio benessere psicologico. Da sempre, infatti, considero il lavoro una grande risorsa per l’essere umano, cui aggrapparsi in momenti bui o di sconforto e questa mia premessa penso che in qualche modo condizioni anche la mia attività clinica e il modo in cui costruisco la realtà insieme ai miei utenti. Da un po’ di tempo però sento che si guarda con più fatica al lavoro come risorsa e piuttosto la si consideri come uno dei tanti nodi problematici della propria esistenza.
Lavorare, infatti, permette a ciascuno di noi di sentirsi “soggetto”, riconosciuto nella propria unicità, capacità e utilità; permette, di entrare in relazione con gli altri, arricchendo la propria vita sociale e affettiva; consente, inoltre, l’indipendenza economica e di avere una progettualità sostanziata e radicata. In molte delle storie che ho incontrato
nella mia professione il lavoro ha aiutato le persone a rialzarsi, a
riprendersi da periodi di malessere o da problematiche relazionali
importanti. Purtroppo però tutte queste potenzialità racchiuse nel lavoro,
con la condizione del precariato vengono oggi negate, dimenticate e diventa
sempre più difficile considerarlo uno spazio cui attingere energie e risorse;
piuttosto rappresenta un luogo angusto che bisogna imparare a conoscere bene,
anche nel buio, per non rischiare di rimanervi intrappolati.
Sento quindi di dover dare voce a queste storie, testimoniando gli effetti negativi che la condizione di precariato ha sulla vita psicologica degli individui; tuttavia, penso anche che sia molto importante cercare di “guardare oltre”, allargando il campo di osservazione e tentando di far emergere le possibilità di crescita e sviluppo insiste in tale nuova condizione sociale.
Questa ricerca di possibilità è stato un preciso
lavoro che abbiamo concretamente strutturato in equipe con i didatti e colleghi
dell'IIPR (Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale) in occasione di un
convegno a Paestum e successivi incontri organizzati proprio per riflettere
insieme sul tema del precariato. Onestamente riconosco che è stato arduo e
difficoltoso per molti di noi compiere questo tipo di ricerca, alla scoperta di
fonti luminose in uno spazio così buio, angusto e ristretto. E’ complicato,
infatti, continuare a pensare con competenza quando la rabbia e il senso di
impotenza prendono il sopravvento e queste emozioni in qualche modo stanno
attraversando anche noi psicologi, in particolare, i giovani professionisti.
Tuttavia, è fondamentale continuare a vedere e cercare, evitando di appiattirci
su luoghi comuni e infruttuosi lamenti.
Ad esempio, parole chiave su cui iniziare a riflettere insieme, anche in questo spazio, potrebbero essere: tempismo, flessibilità, dinamismo, progetti … Penso, infatti, che questi siano dei termini a cui dovremmo smettere di guardare con diffidenza e paura ma piuttosto con curiosità, spirito di iniziativa, speranza e voglia di cambiamento. L’epoca del posto fisso e del contratto a tempo indeterminato sembra ormai tramontata e a questo forse dobbiamo iniziare ad abituarci, smettendo di sperare in qualcosa che sembra adesso impossibile e trascurando invece le uniche vie possibili da percorrere.
Potremmo cominciare a immaginare il signor
Precario al nostro fianco, come un personaggio senza dubbi controverso, con cui
è però necessario allearsi per recuperare un po’ di senso di efficacia e controllo
nella propria sfera lavorativa (ma anche relazionale, affettiva, ecc.).
Continuando a considerarlo solo come un nemico da abbattere forse i risultati
saranno sempre i medesimi: impotenza, rabbia, frustrazione e soprattutto
incremento della disoccupazione.
Dott.ssa Stefania Attanasi
Dott.ssa Stefania Attanasi
Certamente è importante considerare quanto questa nuova visione prospettica, questa nuova occasione, questa nuova opportunità data dal "precariato" si sposi con investimenti personali fatti in Italia. Non esiste per adesso in questa landa desolata un humus che possa massimizzare il profitto dei nostri investimenti. Per questo forse, armati di questa nuova "vision", bisognerebbe provare la via della fuga. Grazie dottoressa!
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