giovedì 18 ottobre 2018

CRESCERE... E' DIVENTARE GENITORI DI SE STESSI

Ritratto di Jeanne Hébuterne
(Modigliani 1918)
Spesso nella stanza di terapia mi confronto con persone che in momenti delicati della loro vita decidono di raccontare la propria storia ad un esperto, con l’auspicio che l’atto stesso di narrarsi, creando nuove connessioni tra fatti accaduti, emozioni e riflessioni, riesca a spiegare e lenire la sofferenza sentita.  
Soprattutto all’inizio del percorso, nel processo di ricerca di senso del dolore, accade spesso che la persona sposti l’attenzione all’esterno da sé, identificando l’origine della sofferenza nell’altro che si è incontrato proprio malgrado nel percorso della vita: nel genitore che non ama abbastanza, nel partner che trascura o abbandona, nel capo despota, nel figlio irrequieto, ecc. Spesso anche la stessa domanda di psicoterapia può presentarsi come una richiesta di “prenditi cura di me” dove si sposta completamente la responsabilità del processo di guarigione solo sul terapeuta. Ma l’altro a cui si delega ogni cosa è solo uno specchio in cui si riflette una parte di sé ancora dolente e non risolta, una parte fragile ed infantile con cui non si è fatto ancora i conti.

Continuare a pensare in questo modo, mantenendo un focus esterno rispetto ai propri vissuti non fa crescere, non aiuta, non cura. Man mano che la terapia avanza, infatti, accade spesso che il focus della storia tende progressivamente a spostarsi sul sé del paziente: “Come ho contribuito a generare questa situazione di sofferenza?”, “Cosa posso fare per stare meglio?”, “Come mi sto muovendo rispetto a ciò che mi è accaduto?”. 
Narrare la propria storia in prima persona evidenziando invece il proprio sentire ed agire significa riprendere il potere ed il controllo sulla propria vita, responsabilizzandosi rispetto al dolore sentito. È un lavoro certamente più complesso e faticoso perché per farlo è necessario fermarsi e fare silenzio, guardarsi dentro e cercare di capire come e perché si sta agendo così, in quale direzione si vuole andare, cambiare rotta se necessario, assumersi dei rischi.

Mi piace pensare al processo di crescita e di evoluzione del sé come ad un cammino verso cui la persona impara progressivamente ad essere un buon genitore di se stesso (pre-condizione necessaria forse per diventare un vero e buon genitore di qualcun altro), un uomo o donna adulti che pensano, decidono e poi agiscono.
Non assumersi la responsabilità delle proprie azioni e del proprio benessere significa restare per sempre nella condizione di “figlio” quindi delegare o dipendere da qualcun altro che si reputa più bravo, capace, forte; significa “Pensaci tu al posto mio, io non ci riesco/ho paura/non ne ho voglia”. Da qui, le conseguenze di ciò che accade nella propria vita, positive o negative che siano, restano sempre fuori dal proprio controllo. Da qui, cresce la sfiducia nelle proprie capacità e si vivono relazioni di dipendenza finalizzate prevalentemente a colmare le proprie mancanze ed incompetenze.

La parola “genitore” significa “colui che genera” qualcosa, qualcuno. Ma prima di un figlio sarebbe importante riuscire ad auto-generarsi, a ri-nascere come genitore di sé, in una forma nuova, più consapevole e adulta. Tutti noi siamo fatti di parti più o meno evolute, parti “genitoriali” e parti “filiali”; diventare finalmente genitori di sé significa riuscire a far emergere quella parte più matura che, forgiata ed arricchita dalle esperienze di vita, riesce a guardare alle parti più infantili e dipendenti con tenerezza, pazienza, senza giudizio alcuno, ma che impara col tempo anche ad educarle, contenerle, modularle. 

Che padre/madre sono di me stesso? Sono al sicuro tra le mie stesse braccia? Mi occupo bene di me stesso? Mi amo a sufficienza? 

Buona riflessione!

                                                                                                                  Dott.ssa Stefania Attanasi

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