giovedì 10 dicembre 2015

LA SOLITUDINE: TALVOLTA ANCHE DISCONNETTERSI FA BENE

La spiaggia a Palavas (Gustave Coubert 1868)
Diverse sono le problematiche con cui mi capita di confrontarmi in stanza di terapia, vanno dal semplice stress quotidiano a malesseri più pervasivi, da difficoltà relazionali transitorie a croniche.  Poi, andando a scavare un po’, cercando connessioni tra problemi e storie raccontate, mi ritrovo spesso dinanzi al solito spauracchio che sembra celarsi dietro ogni sofferenza: quello della solitudine. 
Ansie, paure, comportamenti compulsivi, relazioni disfunzionali o insoddisfacenti mantenuti dallo stesso comune denominatore: il timore di sentirsi soli e abbandonati, di restare “sconnessi” dalle relazioni e dal mondo.  Lo stare da soli è vissuto quindi come un punto di arrivo infelice, uno spazio vuoto e temibile apertosi con le sconfitte della vita da cui rifuggire o da riempire affannosamente, perché in esso ci si potrebbe annientare.

Al contempo, però, mi è capitato anche di ascoltare storie al momento della guarigione dal proprio malessere e notare che ciò va spesso insieme all'essere riusciti finalmente ad attraversare diversamente questo spazio, avendo nella solitudine ritrovato le proprie forze e risorse per riprendersi. Quindi lo stare soli può essere vissuto come punto di partenza vitale e desiderabile, uno spazio pieno e creativo in cui ritrovarsi dopo momenti di buio e dolore.

Dunque due modalità differenti di vivere la stessa condizione: una subita e vissuta tristemente, che riporta alla mancanza o perdita dell’altro e al bisogno fondamentale sociale di essere in relazione; l’altra una solitudine positiva, cercata, desiderata, necessaria per prendere distanza dall’altro e connessa invece al bisogno di sentirsi individuo separato, per riconoscersi nella propria soggettività e unicità. Entrambi questi importanti bisogni, che fanno da cornice alla solitudine, seppur opposti, non sono però separati e si modulano a vicenda: perché non ci si senta mai completamente soli interverrà a un certo punto il bisogno dell’altro e perché non ci si senta confusi con l’altro, perdendo la propria identità, interverrà a un certo punto il bisogno di restare da soli. Essi, infatti, si attivano in diversi momenti della propria esistenza e dipendono fortemente dai contesti, relazioni ed esperienze.

Credo però che come entrambi questi bisogni sono necessari per l’individuo, allo stesso modo, non si possa sperimentare una solitudine positiva se non si sia almeno sfiorata quella negativa e viceversa. E che per potersi sentire soggetto all’interno di una relazione, senza perdersi e confondersi con l’altro, sono necessarie quelle piccole conquiste di consapevolezza di sé (desideri, bisogni, aspettative, ecc.), emerse anche nella solitudine, stando ad ascoltare ciò che si sente tra sé e sé.  

Gli esseri umani, in quanto esseri sociali sono predisposti per essere in relazione, per dirla con le parole di Bateson, infatti:la relazione viene prima, precede” (1979) tutto, come a dire che non possiamo sentirci, aver percezione di noi stessi senza l’altro, senza essere in qualche modo connessi. Tuttavia, ritagliarsi uno spazio per stare soli credo sia altrettanto fondamentale, oggi più che mai, disconnettersi ogni tanto dal mondo reale e virtuale, rappresenta un momento prezioso in cui fare un po’ di silenzio per ritrovarsi profondamente, entrare in contatto con i propri pensieri ed emozioni e meglio predisporsi alle relazioni, magari recuperandone in qualità.

Utilizzo per concludere le parole di Jung, a tal proposito, emblematiche:  
“E’ importante avere sempre un contenuto da portare in un rapporto e questo spesso lo si trova nella solitudine”.

   
                                                                                                          Dott.ssa Stefania Attanasi


Riferimenti bibliografici

Bateson G. (1979), Mente e natura, Adelphi, Milano, 1984

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